Diario di viaggio 2_ott24 – Entriamo nel vivo

Diario di viaggio 2_ott24 – Entriamo nel vivo

Girare per Adwa con Carolina, la nostra fotoreporter, è un piacere. Dentro alla missione tutti la chiamano, la salutano, la vogliono abbracciare toccandosi tre volte con le spalle alla loro maniera. Questa volta mi diverto io a fotografarla ed immortalare i momenti speciali. Lei sa i nomi di tutti, anche quelli impronunciabili, sa chi ha vissuto una storia difficile, chi non chiede mai aiuto ma ne avrebbe bisogno… e anche chi batte la fiacca e bisogna spronare.

Fuori, ama avventurarsi alla scoperta dei luoghi significativi e si orienta alla perfezione. Spesso noi farengi abbiamo un po’ timore ad uscire da soli. Lei è praticamente di casa. Passeggiando tra strade lastricate di sampietrini (!), ci accompagna una mattina presto al mulino del paese. La luce più bella entra da una finestrella in alto di sbieco, rendendo visibili le polveri delle farine che aleggiano nell’aria. Le macine in pietra sono proprio come quelle dei nostri mulini storici, la bilancia coi contrappesi uguale a quella che avevano i miei nonni. A volte anche il mezzo per portare i sacchi a macinare è lo stesso dei tempi antichi: il carretto con l’asino. Il listino prezzi è appeso al muro, lo fotografo e lo traduco con Google Lens: 2 birr al kg per macinare il riso o la miscela di teff e grano alla base dell’enjera, 4 birr per ceci – per preparare lo shirò – 5 birr per il pepe e peperoncino. Capisco perché i “mugnai” tengono naso e bocca coperti dalla tela garzata delle loro sciarpe: quando macinano le spezie piccanti non si respira!

Ecco uno spaccato di vita quotidiana in Etiopia, che a noi sembra così lontana. Carolina mi ricorda che, durante la guerra, dalla missione avevano deciso di cedere un po’ di corrente elettrica del generatore al mulino nei periodi di black-out: senza il suo servizio, la gente non aveva di che mangiare! Qui la filiera è cortissima, dal campo al piatto, non esistono in zona industrie di trasformazione.
Se oggi per molti abitanti di Adwa è possibile vivere questa quotidianità serena, dobbiamo sempre ricordare l’inferno che è stato fino a due anni fa.

Stasera a cena Antonio ed Alberto ci raccontano, tra il serio ed il faceto, i momenti di tensione ogni volta che si sentiva bussare alla porta temendo l’arrivo dei soldati, le giornate in cui si sentivano gli aerei arrivare e bombardare sulle montagne, le sere quando scendeva un silenzio ed un buio innaturale, quando anche i cani randagi smettevano di abbaiare.

Tanti pagano ancora oggi le conseguenze di questo conflitto insensato. Siamo andate a visitare il reparto di pediatria dell’ospedale, abbiamo chiesto da dove venivano le mamme ed i piccolini ricoverati. Quasi tutti erano profughi fuggiti da Humera, al confine con l’Eritrea e tuttora occupata militarmente. Tutti i piccoli hanno contratto la malaria e sono ricoverati per febbri altissime, convulsioni, alcuni di loro presentano anche polmoniti. Uno dei bambini non ha più il padre, morto in guerra. La mamma lo raccontava con gli occhi bassi, la mia domanda ha sicuramente riaperto una ferita sempre latente, me ne dispiaccio tanto…

Abbiamo chiesto ad un’infermiera etiope di tradurci le domande e risposte in tigrino, vediamo che è molto restia, la sua responsabile keniota ci rivela che parla poco l’inglese. Ci chiediamo come abbia fatto a studiare scienze infermieristiche, visto che i libri di testo non esistono nella lingua locale… Suor Laura ci sta ripetendo ogni giorno che è urgente formare internamente il personale, che le lacune sono spesso gravi. Comprendiamo la sua priorità, confidiamo che le nostre bravissime volontarie italiane ci aiutino nel fare i passi giusti per costruire un percorso serio con i riconoscimenti governativi necessari per offrire titoli di studio parificati.
Scendiamo nel pronto soccorso, la dottoressa Marina, dispiaciuta per essere all’ultimo giorno di permanenza nell’ospedale di Adwa, vuole lodare l’infermiera che l’ha affiancata nelle visite di questi giorni. È una ragazza all’ottavo mese di gravidanza, che sta venendo a lavorare senza risparmiarsi e che ha dimostrato dedizione, competenza e desiderio di imparare. Le chiediamo da quanti anni lavora qui: sette anni. Mi si accende una lampadina: “Do you remember Sara and Pietro?” “Yes!”. Che soddisfazione: Mebratom faceva parte del primo gruppo di infermiere formate dai nostri cooperanti nel 2018-19. E non è sola, ci sono anche un’infermiera della terapia intensiva neonatale ed una della medicina. Sono davvero felice: anche se alcune cose non hanno funzionato, abbiamo seminato bene, loro tra tante si riconoscono e si distinguono. Vale la pena provarci, spendersi, scommettere che qualcosa di buono riusciremo a farlo, anche se tra mille difficoltà.