13 Mar Tra monti ed abbracci: il ritorno ad Adwa di Carolina
Attraverso il finestrino del Bombardier dell’Ethiopian Airlines, guardo gli altopiani che scorrono sotto di me. Il volo interno da Addis Abeba a Shirè è il mio preferito anche se è il più traballante. La tensione del viaggio si dissolve, la stanchezza mi invade, mentre il rumore delle eliche mi culla. Chiudo gli occhi per un istante, lasciando che le montagne si dipingano nella mia mente, cercando di indovinare i loro nomi. Giampaolo li conosceva tutti così bene, e ora quei picchi scoscesi mi ricordano lui più che mai.
Quando atterro, il sorriso di Leda mi accoglie già dall’estremità della pista. Lei ha già organizzato tutto, compreso il trasporto delle valigie. La sua precisione è una certezza per volontari e collaboratori.
Ci avviciniamo e ci abbracciamo calorosamente. Mentre noi arriviamo, tanti altri stanno partono per rientrare in Italia. In 25 anni, Amici di Adwa ha creato una famiglia grande e solidale, intessendo legami che durano nel tempo.
Il viaggio verso Adwa è diverso da quando la guerra è terminata. Prima si arrivava ad Axsum ed in 20 minuti si varcavano i cancelli della missione. Oggi però l’aeroporto è ancora chiuso e l’aeroporto più vicino, quello di Shirè è a due ore di strada. Percorriamo le strade dissestate, mentre il nostro amico e autista Showit mi spiega che quelle buche nell’asfalto sono le “ombre” lasciate dalle bombe.
Finalmente inizio a riconoscere le “nostre” montagne, e penso a quanto sarebbe stato orgoglioso Giampaolo di vedere quanto sono diventata familiare con questi picchi. Il monte Soloda, il Semahiatà, Aba Gerima… sono loro, le montagne che circondano la nostra missione. Nonostante sia sepolta sotto un cumulo di valigie, cerco lo sguardo delle nuove volontarie per dir loro: “Ecco le montagne di Adwa, siamo a casa”.
Questo viaggio è diverso dai precedenti perchè non ho viaggiato da sola, in silenzio. Con me c’è mia madre Marinella con Margherita. Mia madre non dice nulla perchè ormai lo sa che anche questa è casa mia. Mi osserva abbracciare con affetto e sorridere di gioia a quanti incontro in missione. So che questo mio atteggiamento così caloroso ed affetuoso la sorprende, ma lei osserva in silenzio e mi chiede di presentarle le mie amicizie…Ci sono Nebiat e Mamit, le cuoche, Emanuela, una bambina meravigliosa, e Mery con le ragazze dell’ostello. A pochi minuti dal nostro arrivo in missione, ci prepariamo subito per andare al mercato con Salamawit che ci guida tra i banchi, aiutando Marinella e Margherita a scegliere le stoffe per i tanti articoli che dovranno cucire per l’associazione e che dovremo riportare in Italia.
Con noi ci sono anche nuovi medici volontari, e insieme a Leda ed Antonio organizziamo un tour nell’ospedale e nei cantieri per mostrar loro il lavoro che stiamo facendo e quello che ci aspetta. Sono tutti sbalorditi, e dopo 11 anni, anch’io lo sono ancora. Ogni volta mi stupisco di quanto sia ambizioso ciò che stiamo costruendo e di come grazie alla guida di Suor Laura siamo riusciti a trasformare un sogno in realtà. Oggi la sua visione è diventata una fonte di salvezza per tanti.
Nell’ospedale, le cartelle si riempiono di annotazioni infinite sulle terapie, sul numero di guanti, aghi e garze utilizzati. Tutto è contato, tutto è catalogato. Qui nulla è scontato, nemmeno la possibilità di acquistare il più semplice dei beni di prima necessità.
La fame si insinua tra le corsie dell’ospedale, negli occhi dei bambini prematuri e nei ventri vuoti delle loro madri. La fame è presente anche al mercato, dove un Kg di cipolle costa l’equivalente di 1,30€ e uno stipendio è di 30€ mensili.
E poi c’è la fame negli occhi dei profughi che popolano i centri di accoglienza di Adwa. Sono apolidi, sradicati dalla loro terra, ancora oppressa dalle milizie FANO. Non sanno come riconquistare il loro futuro, con le fabbriche distrutte e le speranze appese a un filo sottile.
Ma noi continuiamo a immaginare e a costruire il futuro in missione, sostenuti dall’infinita solidarietà degli Amici di Adwa. La nostra missione non è un’isola, ma un faro di speranza in mezzo alle tenebre che la guerra ha lasciato dietro di sé.